“Quartet”
di Dustin Hoffman
Con tutta la devozione
che si deve ad un attore del suo calibro, l’esordio alla regia del
grande Dustin Hoffman si ricorderà se non altro per essere un
omaggio sentito e scanzonato alla musica classica. Il suo “Quartet”
sembra avere tutti gli ingredienti della commedia inglese destinata a
diventare un piccolo cult. Tratta dall’opera teatrale di Ronald
Harwood la storia si sviluppa attorno alle figure di quattro
ex-cantanti lirici nella casa di riposo Beecham House, di rimando
verdiano.
Dopo Amour di Michael
Haneke, il cinema torna ad affrontare le problematiche della terza
età, che, questa volta, non è in lotta contro la malattia bensì
contro le glorie perdute del passato. Alla difficoltà di accettare
il decorso del tempo si contrappone, però, la capacità di rileggere
le note della vita da una nuova prospettiva, virtù propria della
saggezza senile. Così, malgrado l’Alzheimer e l’osteoporosi, i
protagonisti trovano la volontà di prepararsi ad un’esibizione in
occasione dell’anniversario della nascita di Giuseppe Verdi,
finanziando Beecham House con i fondi ricavati. Ci riusciranno
proprio grazie all’amore per la musica, lo stesso che gli ha
accompagnati nella loro esistenza e a sua volta riflesso di quello
dello stesso Hoffman. Dedizione che emerge sia nel rimando continuo
ad opere e ad interpreti del passato sia nella ritmica del film,
continuamente scandita, forse con eccessiva ridondanza, da una serie
di aree tra le più celebri del repertorio lirico.
La vicenda di Jean Horton
(Maggie Smith), star dell’opera, che, dopo una vita sacrificata al
successo a discapito degli affetti personali, non riesce ad accettare
l’attuale declino, ne è la chiave interpretativa. Sarà il
conforto e la consolazione di un amore coltivato in segreto e
rinvigorito proprio dal tempo, a dischiudere in lei la possibilità
di un riscatto.
I momenti di punta si
devono alle battute incalzanti di due componenti del magico quartetto
in particolare: l’istrionico Wilf (uno straordinario Billy
Connolly) con la sua cinica ironia e la stralunata Cissy (Pauline
Collins).
Eppure, nonostante la
materia narrativa e la performance di attori bravissimi, il film
manca di coerenza e forza, a partire dalla costruzione della storia,
da cui non si riescono a cogliere a pieno le dinamiche sentimentali
dei personaggi.
La sobrietà e la
delicatezza della regia non sono qualità sufficienti a giustificare
una sceneggiatura che appare debole, discutibile per certe scelte
stilistiche di montaggio e dei dialoghi, in alcuni momenti prolissi
se non addirittura superflui ai fini della narrazione. Considerando
il fattore inesperienza, essendo un’opera prima, è come se nella
sinfonia del film mancasse un senso di armonia generale.
Un commento a se merita
la costruzione del finale, che da solo è sufficiente a condensare
tutto il senso dell’opera:
lo spettatore, partecipe
della piece teatrale del quartetto, vede aprirsi la scena, da cui gli
anziani protagonisti, nel pieno del loro vigore e in procinto di
cantare, appaiono di spalle. Non ci è dato di vederne l’esibizione
e l’inquadratura lentamente si estende e si allontana dalle luci di
Beecham House, lasciandone intuire la performance.
Il percorso, se
intrapreso con volontà e determinazione vale quanto il risultato,
ancor di più se a darci questa lezione di jeux de vivre non
sono i giovani ma chi erroneamente crediamo non abbia più nulla da
dirci.
Laura Spina
Interessante!
RispondiEliminaSi infatti non vedo l'ora di vederlo :D
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